Enzo Monti Racconti

UN CRETINO

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Nei balli, mi scateno e ricevo pure applausi, non perché sono un fanatico seguace di Tersicore, ma perché mi diverto un mondo a fare il buffone, nonostante resistenza e scioltezza non siano più quelle d’una volta.

 

Le due ultime occasioni le ho avute ai matrimoni dei miei figli. Soprattutto a quello di Nicola e Caterina, dove mi capitò un episodio davvero singolare.

 

Il primo ballo lo feci per dovere con la donna più brutta e più vecchia, quella che di solito non la fa mai danzare nessuno. Ballai poi con tante, tra cui Caterina, mia moglie e Giada: una simpaticissima nipotina di mia moglie. Anche se dopo qualche ballo di fila dovevo riprendere fiato, quella volta non mi arresi se non alla fine.

 

Durante una pausa m’intrattenni con un amico dei miei figli: un single che, da quello che mi ha lasciato intuire e da ciò che successe poi, aveva e avrà tutte le buone intenzioni di praticare l’onanismo per tutta la vita. Mi stavo informando sul suo lavoro quando m’accorsi che una bella bionda guardava con insistenza verso di noi. Chiesi allora a Carlo:

 

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Enzo Monti Racconti

LA PELLICCIA

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Nell’Odissea, Omero dice che Giove ha dato le sventure agli uomini affinché abbiano di che cantare.

 

A me basta poco: uno sguardo compiacente, un sorriso, tre parole, un pettegolezzo per poter mettere giù qualcosa. Non sarà un canto, ma neppure una lagna. A che serve scrivere delle disgrazie quando ogni giorno ne arrivano a vagoni?

 

Dopo il racconto fattomi dal commesso della pellicceria è come se avessi vinto cinquanta euro al gratta e vinci o se avessi bevuto al bar un paio di calici di champagne. E se poi questa storia mi riesce di metterla in modo decente sulle pagine bianche, volo allora tra le nuvole, e la sua storia diventa la mia: è come se l’avessi vissuta io.

 

Di primo pomeriggio e alla fine degli anni Settanta, avevo in negozio Alberto: un quarantenne,  alto, atletico, dai modi gentili e dal soldo facile. Era venuto a ritirare un occhiale da sole a cui avevo sostituito una lente quando entrò Gigi, un mingherlino insignificante in divisa da commesso e che lavorava nella più nota pellicceria della città. I due si salutarono: Gigi con un’aria deferente, l’altro con quel distacco con cui si tiene lontano un seccatore.

 

Come Alberto uscì dal negozio, spinto dalla curiosità Gigi mi chiese:

 

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Enzo Monti Racconti

DINO

 

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Bosco Piazza 

 

 

Dino è stato il mio primo e unico amico d’infanzia.

 

Se escludo alcuni mesi per adempiere ai miei impegni scolastici, sono cresciuto fino all’età di otto anni a Bosco Piazza, una frazione di Torricella Del Pizzo in provincia di Cremona. Una lingua di terra compresa tra il fiume Po e i suoi argini maestri. Terra sabbiosa e al tempo stesso fertile, ricca di prati, di campi di grano, di boschi di pioppi, e dove l’insistente monotono frinire delle cicale e il richiamo del cuculo rendevano ancor più noiose e insopportabili le calde ore estive.

 

Allevato dai nonni e dagli zii in tempo di guerra, oltre a sollevare dalle fatiche mia madre impegnata nel lavoro e alla cura di mio fratello più piccolo, la campagna rappresentava il posto più sicuro di questo mondo. Questo era quello che credevano i miei, ignari dei pericoli che passavo frequentando Dino, visto che con lui ero sempre in guerra.

 

In quel gruppo di case che formavano il Bosco c’era anche Mario che aveva la nostra età. Nonostante si giocasse anche con lui, i miei pensieri, le mie preoccupazioni, il mio cuore avevano un nome solo: Dino.

 

Ero attaccato a lui come la lappola dei fossi. E non c’era una spiegazione perché questo avvenisse. Forse era il suo modo d’insegnarmi i segreti della campagna, oppure quello ruffiano di farsi perdonare solo con gli sguardi, proprio non lo saprei. Scusate se mi ripeto: aveva di bello quel  modo tutto suo di farsi perdonare.

 

Ambedue biondi con la candela al naso, stessa altezza, anche se lui più vecchio quasi d’un anno, formavamo una coppia indissolubile. Nella bella stagione, in braghette e corpetto sbracciato, con la fionda che spuntava da dietro il taschino, a piedi nudi e sporchi come selvaggi si batteva la campagna in lungo e in largo. Perfino per fratelli ci scambiavano.

 

Dino si accompagnava al suo Checco: una cornacchia ammaestrata a cui avevano tarpate le ali; io al mio bastone che mi serviva sia per andar a pascolare le oche di nonna e di zia Teresa che per difendermi da lui. Eh, sì! Dovevo tenerlo ben lontano perché di tanto in tanto ci si azzuffava, e purtroppo lui aveva sempre la meglio.

 

Mentre rimanevo in città, lui non si staccava dalla campagna, e ogni volta che ritornavo mi aggiornava. Non solo, mi costringeva a seguirlo nelle sue imprese, se non obbedivo ai suoi ordini, diventava aggressivo, violento, e me le suonava. Mi considerava un po’ come il suo servo, se non addirittura il suo schiavo.

 

Si scavalcavano le siepi e si faceva man bassa negli orti dei vicini. Ci si arrampicava sugli alberi per arrivare ai nidi, a volte, erano piante altissime, e per due soldi di cacio come noi, erano talmente alte che, nello scendere, oltre al terrore, ero preso anche dalle vertigini. Quel che si faceva a quei poveri animali che ci capitavano tra le grinfie non è da raccontare. Ricordo che si scorrazzava per la campagna in mezzo ai prati, nei boschi, sugli argini, sulle rive degli stagni e del fiume, strappando rosolacci, spiaccicando insetti e sguazzando nei fossi. Sempre fuori di casa e liberi come uccelli. Le prede si dividevano senza bisticciare; fatta eccezione il giorno che catturammo insieme un leprotto. Visto che non lo si poteva portare a giudizio di Re Salomone, senza darmi spiegazioni, se lo tenne. In lui conviveva generosità ed egoismo, e bastava poco perché passasse dall’amore all’odio. A giorni era così cattivo che anche le api lo sfuggivano: era l’unico tra noi ragazzini che s’avvicinava alle arnie.

 

Eppure, di lui ricordo i fischi di quando richiamava la sua cornacchia, l’odore del suo sudore, le croste delle sue sbucciature, i calli delle sue mani, l’abilità nell’usare il temperino, d’infilare un lombrico nell’amo e nel riconoscere dalle uova il tipo d’uccello. Quanti rimpianti e quanta nostalgia dei profumi e dei sapori della terra dei miei nonni! E che dire delle nostre imprese? E di quel giorno?

 

Di mattina, entrammo nella stalla di mio zio Gino per vedere il vitellino nato da una settimana. Non c’era nessuno, neppure Tacheli, il mezzadro dello zio. Come l’animale ci vide o ci sentì, sebbene fosse impastoiato, s’alzò dalla sua cuccia di paglia, felice di vederci. Aveva il pelo macchiato di marrone, due occhioni colmi di stupore e un musetto, nonostante fosse bagnato di muco, talmente delizioso e piacevole da attirare baci e carezze.

 

Un paio di volte mamma mucca si voltò verso di noi richiamando il vitellino con dei muggiti, forse per avvisarlo che sarebbe caduto in mano a due monelli. Dopo averlo coccolato e accarezzato con dolcezza sul muso e sulla groppa, quella bestia del mio amico si slacciò i calzoncini e gli strofinò sul muso il suo pistolino(1). Chiamatela cattiva abitudine o brutto vizio, ma lui quell’arnese l’aveva sempre in mano. Ma non pensate male! Lo fece senza malizia. Non avevamo ancora l’età per immaginare ciò che le nostre ragazze ci avrebbero fatto nell’età adulta. Lo fece così, tanto per scherzare.

 

Il vitello gli diede una linguata, Dino rideva divertito e glielo appoggiò sul muso una seconda volta. Il vitello che aveva mancato la preda la prima volta, prima di riprovare ad agguantarglielo, gli diede una testata in avanti come quando succhiava il latte dalla mammella di sua madre. Dino finì a terra. E allora fui io a ridere.

 

Come si riebbe, crucciato e in tono di comando:

 

– Adesso, lo devi fare anche tu.

 

– Cos’è che devo fare?

 

– Devi darglielo da leccare.

 

– Ma neanche per sogno!

 

– Ti manca forse il coraggio?

 

– Non son mica scemo! Non vedi che t’ha dato una testata come dà alla tetta di sua madre prima di prenderne il capezzolo?

 

– Ma che razza d’amico sei allora?

 

– Uno che non vuol perdere il proprio pistolino(1).

 

– Sbrigati! Lo devi fare anche tu,- avvicinandosi con fare minaccioso.

 

Il mio bastone quel giorno era alto quanto me ed era grosso come la metà d’un manico da scopa. Cercò di strapparmelo, lo respinsi e lo minacciai. Quella bestia non aveva paura neanche del diavolo. Fece qualche passo avanti, e allora alzai in alto il bastone. Mentre cercava ancora di assalirmi, gli sferrai una botta dall’alto in basso. Lo colpii alla spalla, avendo piegato in tempo il capo per evitare il colpo. Che fosse sbilanciato o scivolato non lo saprei, sta di fatto che per la seconda volta cadde a terra.

 

Nel suo sguardo lampeggiarono sia l’odio che la vendetta. Stava per rialzarsi, quando lo minacciai:

 

– Se ti alzi, t’accoppo!

 

E poi …  e poi me la diedi a gambe ancor più velocemente della volta che lui m’aveva rotto il mio schioppetto(2) e io avevo tramortito con una sassata il suo amato Checco.

 

Il giorno dopo, con accanto la sua fedele cornacchia, era davanti alle mie finestre come se niente fosse. Se non fosse venuto, sarei andato io da lui.
 

(1)    Pene di bambino.

(2)    Fucile da bambino.

 

 

Fonte: srs di Enzo Monti del 12 settembre 2013

Link: http://enzo-monti.blogspot.it/2013/09/dino.html

 

Enzo Monti Racconti

LA SORELLA DI MISS EUROPA

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La Palazzina Azzurra

 

 

Mi scuso con gli stranieri per non aver tradotto le parti dialettali e alcuni termini poco comprensibili o addirittura introvabili sui vocabolari, non credevo d’avere un pubblico cosmopolita. Perdonatemi!

 

In ogni compagnia, c’è sempre qualcuno che conta balle. Io ho avuto la fortuna di aver Memo, amico di mio fratello e  suo compagno di classe, che ne sparava a raffica.

 

Dotato di sfacciata disinvoltura e di notevole capacità nel raccontar frottole, rivestiva le sue affermazioni con tale sicurezza da farle sembrare più vere di quanto non lo fossero. Non che lo facesse per cattiveria o per scopi particolari. Con probabilità, solo per farsi bello.

 

Per quanto si faccia, con i bugiardi non si riesce mai a cambiarli, anche se ripetutamente gliele canti. Mi vengono in mente alcuni scritti di Oscar Wilde a proposito dei mentitori,” con le loro franche e intrepide asserzioni, con le loro superbe irresponsabilità “e pronti a falsificare perfino le prove più evidenti. E lui era fatto così, era capace di mentire anche sul mentito.

 

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Enzo Monti Racconti

BASTA CHE TE TASA

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San Bassano.   Casa di cura

 

 

Mia madre ha vissuto da sola nel suo appartamento a Cremona in Via Volturno 62 fino alla bella età di novantadue anni, finché un giorno, a causa di un’ernia iatale, ebbe un crollo.

 

Un malanno che la faceva terribilmente soffrire e che trascurava. Non seguiva né la dieta che le era stata ordinata, né prendeva con regolarità le medicine che le avevano prescritto. Non tollerando oltre i dolori, per disperazione un dì arrivò a scottarsi con un ferro da stiro la pancia nel tentativo di digerire meglio. Negli ultimi tempi s’era ridotta a vivere, a nostra insaputa, solo di yogurt per poter mandar giù qualcosa; ma la cattiva e scarsa alimentazione la portarono a precipitare in un terribile stato febbrile che la costrinse a essere ricoverata d’urgenza all’ospedale.

 

Lei, che era nata già chiacchierona, a causa della febbre alta era stata colta dall’eterolalia: una loquacità delirante che la rendeva ancor più gioviale del solito. Tuttavia, il suo stato preoccupava, anche perché in quel suo chiacchierare c’era un qualcosa che non quadrava.

 

Al giorno d’oggi, negli ospedali non ci ospitano più tanto a lungo; se potessero ci caccerebbero via con ancora le budella in mano o con il sangue che ci cola addosso. Infatti, come si riprese di quel poco, non potendo tenerla oltre ci consigliarono di ricoverarla in un ospizio. Già! Ma non si chiamano più così oggigiorno, c’è chi vuole che siano chiamati luoghi di accoglienza.

 

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Enzo Monti Racconti

CRISTINA

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Mi fu presentata dalla sorella più giovane d’un mio amico. Devo ammettere che non fui io a conquistarla, ma lei a catturarmi. Non solo! Dopo sei mesi fu sempre lei a mandarmi a spasso. E cosa ci potevo fare? Non sempre gli anelli s’infilano nel dito giusto.

 

Sul metro e sessanta, magrolina all’apparenza ma ben tornita, rossa e con capelli a coda, possedeva un bel sorriso, un buon carattere e qualche brufolo di troppo. Quel che la rendeva unica e singolare era il fatto che voleva far l’amore nuda e sempre nei prati. E non c’era verso di farlo diversamente.

 

Se il letto è il luogo preferito dai più, negli anni ho sentito che alcuni lo fanno volentieri sui tappeti, contro il tavolo della cucina, nelle vasche da bagno, negli ascensori, insomma, dove capita. Ma che si preferissero i prati a volte umidi di guazza, su zolle di terra nuda e cruda, oppure su spuntoni d’erba spesso anche secca e con una miriade d’insetti che ti corrono su e giù per il corpo, non l’avrei mai creduto se non l’avessi provato. Non ha tutti torti il grande Oscar quando dice che la natura è scomoda.

 

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Enzo Monti Racconti

SPERANGELO

 

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Anni fa, avevo scritto un racconto su Luciano Pelizzari, un pittore che a quei tempi viveva in un paio di locali che s’affacciano su Piazza Delle Erbe qui a Verona. Mario Miollo, altro amico pittore che bazzicavo ancor prima di Luciano, mi fece una imbarazzante scenata di gelosia. Per mettere le cose a posto, dovetti scrivere anche su Mario qualche riga che poi pubblicai nel mio primo libro “ Il maestro della leggenda di Sant’Anastasia”. Ma questo non fu l’unico caso.

 

Un giorno, venne da me un signore distinto con cui avevo fatto qualche chiacchiera, venduto forse qualche occhiale, e nulla più. S’appoggiò al banco di vendita e davanti a una coppia di clienti :

 

– Ah, son proprio contento!… Caro Monti, giorni fa ero ad Ascot alla corsa dei cavalli quando il Duca di Kent, che è  mio amico da vecchia data, pieno d’orgoglio mi ha mostrato uno scritto che aveva ricevuto qui a Verona qualche mese prima. Glielo avevano dato come omaggio avendo consegnato alla nostra città, da parte dell’Unesco, il riconoscimento di “Patrimonio dell’Umanità”. Non dirmi che non ne conosci l’autore? … Di me, che ti conosco da una vita, non hai mai scritto niente; arriva uno che non hai mai visto e gli dedichi una poesia. Son proprio contento … Eh, sì! son proprio contento! – e amareggiato uscì.

 

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Enzo Monti Racconti

LA SELLA

 

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Tra i dieci e i tredici anni, in soffitta a Cremona in Via Volturno al numero 2, con i miei compagni di gioco ogni tanto ci mostravamo i primi peli.

 

Il nostro pisello(1) s’allungava e s’ingrossava con il trascorrere del tempo, mentre per le ragazzine il taglietto, oltre a qualche piccolo pelo di rivestimento, non era poi tanto diverso di quando erano più piccole.

 

Per saperne di più, dalla terza Media in poi andavo in biblioteca a spulciare sulle enciclopedie. Dovevo stare attento alla curiosità dei bibliotecari e degli studenti che mi passavano alle spalle. Prima dei diciotto, andavo a studiare nel nostro magazzino in Via Volturno al numero 26. Invece di applicarmi sui libri, attraverso un foro sbirciavo nel gabinetto del cortile in attesa di qualche preda. Purtroppo scorgevo ben poco: solo ciuffi di peli, e a volte il pelo era talmente abbondante che mi sembrava di vedere cespi di verdura. E allora sfogavo il livore e foia con delle seghe(2) rabbiose.

 

I ragazzi del giorno d’oggi la cantano bella: noi non avevamo allora quelle meravigliose e piacevoli illustrazioni di cui dispongono al giorno d’oggi. Non esistevano riviste, cassette, trasmissioni televisive, Internet, dove  ci danno visioni panoramiche e talmente dettagliate che se ne possono contare perfino i peli. Quello che si vedeva allora erano solo disegni. Le fotografie erano rare e sfocate, e “L’origine del mondo” di Gustave Courbet ammuffiva ancora nei sotterranei  del museo.

 

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